Writers of Europe: Turchia
Orhan Pamuk, Premio Nobel
per la Letteratura, racconta Istanbul fin dal suo primo romanzo: la
sua storia, la sua gente, la sua bellezza, i suoi affreschi e le
infinite sfumature della sua anima. E quando la sua voce incontra
quella di Sema Kaygusuz, nei cui romanzi echeggiano le antiche
leggende dell'Anatolia, e quella di Elif Shafak, scrittrice popolare
che coniuga realismo sociale e magia ancestrale, è tutta la Turchia
a rivelarsi sotto una nuova luce.
Orhan Pamuk: “Abito a
Istanbul da 60 anni. È stata Istanbul a definire la mia personalità,
il modo in cui vivo i momenti di felicità e di tristezza. Mi sono
chiesto: cos'è che definisce questo luogo? Cos'è che costituisce
l'anima di una città? A Istanbul, questa città bella e famosa,
quello che si impone prima di tutto è la contemplazione del Bosforo
e dei paesaggi urbani. Da bambino, queste contemplazioni di Istanbul
hanno alimentato in me un sentimento fondamentale, qualcosa che ha a
che vedere con il chiudersi in se stesso, con la rinuncia, a
riuscire, ad arricchirsi, a essere forte, una sorta di malinconia, il
cosiddetto yuzun. E nel saggio che ho dedicato alla mia città,
intitolato appunto “Istanbul”, ho cercato di comprendere questo
particolare sentimento, questo yuzun che permeava questa
metropoli soprattutto negli anni '50 e '60. Yuzun incarnava
perfettamente le atmosfere di questo luogo. Era un sentimento tipico
della gente di qui, gente povera e senza avvenire, che viveva sulle
rovine dell'Impero Ottomano, in una città situata ai margini
dell'Europa. Yuzun non coincide con il concetto occidentale di
malinconia, è un sentimento che implica una dimensione morale e un
senso di inquietudine nell'attesa di una perdita imminente,
paragonabile a un'ideologia che permea un'intera comunità. La
Istanbul del mio immaginario è quella di certe foto in bianco e
nero, quelle foto ci restituiscono le atmosfere di una città
industriale, brulicante di operai, dominata da un cielo plumbeo.
Ricordo i battelli, i pennacchi che si sollevano dai fumaioli, i
pescherecci, le barche a remi, le navi da diporto, le vie costeggiate
dalle tipiche case in legno, i marciapiedi lastricate, le baraccopoli
nelle periferie. È per questo che mi piacciono tanto le fotografie
di Ara Gűler. Mi capita
spesso di rovistare nei suoi archivi e quando gli dico quanto mi
piacciono le sue foto, lui mi guarda e mi dice: 'Tu le ami perché ti
ricordano di quando eri bambino' e io gli rispondo: 'No, le tue foto
mi piacciono perché sono molto belle, non perché mi ricordano la
mia infanzia'. Dopodiché cominciamo a ragionare insieme e a
chiederci se la bellezza possa prescindere dalla memoria e alla fine
concludiamo che no, senza il ricordo la bellezza non può esistere.
Negli ultimi 15 anni Istanbul è cambiata moltissimo. È cambiata più
in questo lasso di tempo che nei precedenti 45 anni, nel corso dei
quali era rimasto tutto invariato. Cercare di comprendere questa sua
profonda trasformazione, cercare di categorizzarla, catalogarla,
descriverla e metterla in un libro è molto difficile. È per questo
che ora, per scrivere il mio nuovo romanzo, faccio ricorso a degli
assistenti. Queste persone passeggiano, parlano con la gente,
raccolgono informazioni. Cercare di capire questa metropoli oggi non
è più così semplice. Adesso ci sono dei quartieri che non ho mai
visto, nei quali non ho mai messo piede e sono ancora Istanbul,
eppure sono così remoti che un tempo non li consideravo un'altra
città. Sì, ora sto scrivendo un nuovo romanzo. Sto cercando di
capire questa nuova Istanbul. Scrivo di nuovo della città che si è
sviluppata in questi ultimi 40 anni, dei suoi abitanti più poveri,
di quelli che si sono trasferiti dall'Anatolia per venire ad
ammassarsi nelle bidonville della metropoli, poi nei quartieri un po'
meno degradati, dei piccoli commercianti, degli operai, dei poveri
della città. Dunque è un romanzo su questa gente, che mostra
l'arricchimento che è avvenuto in questi ultimi anni”.
La modernità non ha
ancora preso il sopravvento su certe tradizioni immutabili. Si
continua ancora a pescare sul ponte di Galata, di fronte al Bosforo,
a Santa Sofia, al Palazzo di Topkapi, eredità di due imperi
(bizantino e ottomano) che hanno dominato la città per oltre 16
secoli. Con il suo ponte che scavalca il Bosforo, un piede in Europa,
l'altro in Asia, Istanbul racconta il destino della Turchia: Paese di
mezzo, le cui frontiere accarezzano il Medio Oriente e gli ultimi
lembi dell'Europa, un Paese sulla soglia, dalle eredità molteplici e
dall'identità tutt'ora incerta.
Sema Kaygusuz: “La
storia di quest'isola (di Bozcaada) è una storia fatta di
migrazioni, esili, sbarchi, ma questo luogo contiene anche una sua
bellezza, una bellezza molto selvaggia. Per amare quest'isola è
necessario essere capaci di tollerarne l'asprezza. La prima volta che
sono venuta qui, deve essere stato circa 10 anni fa, era inverno e ho
fatto una lunga passeggiata. Mentre camminavo, ho visto che il mare
cominciava lentamente a gonfiarsi e a incupirsi, tanto è vero che a
un certo punto mi ha dato l'impressione che avrebbe inghiottito
l'isola. Quell'immagine era impressionante, e mi ha colpito molto. E
dopo mi sono detta: deve essere stato qui, su quest'isola, che
Poseidone ha punito Ulisse”.
I Turchi la chiamano
Bozcaada, i Greci Tenedhos. Descritta da Omero, visitata da Ulisse,
la piccola isola dell'Egeo sorge di fronte a Troia e ai Dardanelli. A
turno è stata dominata da Alessandro Magno, Roma, Bisanzio, Venezia,
fino alla conquista degli Ottomani nel 1455. Cinque secoli nel corso
dei quali turchi e greci hanno coabitato. Pescatori e vignaioli.
Sema Kaygusuz: “La
gente che è partita da qui, si è lasciata alle spalle una
tradizione: il vino, la produzione del vino, una tradizione
millenaria che esiste anche in Anatolia. Il desiderio di conservare e
perpetuare questo sapore tramandato dai produttori di vini di queste
terre equivale, per certi versi, a custodire la memoria dei defunti”.
Da Bozcaada, come da
tutta la Turchia, i greci se ne sono andati. Gli accordi di pace
scritti in seguito alla Prima Guerra Mondiale, ridisegnano i confini
dell'Europa. Incalzati dalle baionette, i diversi gruppi etnici che
fino ad allora hanno convissuto nell'Impero Ottomano, vengono
deportati. 400 000 turchi musulmani sono costretti a lasciare la
Grecia e quasi un milione di greci ortodossi vengono espulsi da
quella che diventerà la Turchia moderna. Chi sfugge a questi
trasferimenti forzati finirà comunque per partire, sentendosi ormai
fuori posto nella nuova Repubblica Turca proclamata nel 1923 da
Mustafa Kemal Ataturk. Una Repubblica moderna e laica, eretta intorno
a un territorio, l'Anatolia, e uno zoccolo duro, il popolo turco.
Sema Kaygusuz: “Volevano
una popolazione turca. Si è perseguita un'uniformità etnica, ma
anche religiosa, privilegiando l'Islam sunnita rappresentato dal
Dipartimento degli Affari Religiosi. Ed è così che l'Alevismo,
un'altra corrente dell'Islam, è stato emarginato, ridotto a una
semplice manifestazione culturale e folkloristica. Ciò significa che
ancora oggi l'appartenenza religiosa di qualcosa come 20 milioni di
persone è ufficialmente ignorata, passata sotto silenzio. Inoltre
esiste una distinzione tra musulmani e non musulmani. In Turchia, gli
ebrei e i cristiani non sono mai nominati come tali. Li si definisce
come non musulmani e questi non musulmani sono stati relegati ai
margini del sistema, mentre la nostra storia è lì a ricordarci come
un tempo fosse possibile amministrare questo Paese tutti insieme. Un
armeno, per esempio, poteva tranquillamente diventare Primo Ministro;
un ebreo poteva svolgere mansioni importanti al Palazzo. Poi, invece,
di colpo tutto è cambiato. Il tessuto sociale del Paese è stato
assorbito dal modello turco”.
Orhan Pamuk: “All'inizio
del XX secolo, metà della popolazione di Istanbul era musulmana, e
l'altra metà era non musulmana. Oggi, invece, è una città
musulmana al 90%. Durante la mia infanzia, spesso nella nostra strada
si sentiva parlare greco. Quando andavo alle elementari, in ciascuna
classe c'erano all'incirca 35 alunni: tra questi ce n'erano almeno
3-4 di etnia armena, 3-4 ebrei, e gli altri 3-4 bambini erano di
origine greca. Ora se ne sono andati via tutti. A volte vado ancora
in una vecchia libreria: quando qualcuno muore, per esempio un
vecchio greco, tutti i suoi libri finiscono lì. Opere in francese,
in greco, opere acquistate negli anni '40 e '50, i suoi vecchi
dischi. Davanti a me riaffiora tutta una cultura e tutto questo mi
commuove. Questa vecchia Istanbul, questa gente di altri tempi, il
greco che sentivo parlare quando uscivo con mia madre a fare la
spesa, gli slogan scritti sui muri per ricordare che bisognava
parlare turco, tutto questo ormai fa parte del passato. Eppure in
città si intuisce ancora la loro presenza. Se ne vedono le tracce,
sui muri degli edifici, negli oggetti affiorano ancora le orme
scolorite di quel passato”.
Ataturk non si limita a
proclamare la Repubblica sulle rovine dell'Impero Ottomano: reinventa
la società turca. Codice civile nuovo, diritto di voto per le donne.
In pochi anni si assiste a una modernizzazione a tappe forzate. Si
procede alla simbolica messa al bando del fez, il copricapo ottomano.
Anche la lingua subisce una trasformazione.
Orhan Pamuk: “Nell'ambito
del suo progetto di modernizzazione, Kemal Ataturk ha voluto
riformare anche la lingua. Si è deciso di passare dall'alfabeto
arabo a quello latino. E allo scopo di purificare il turco, sono
state eliminate le parole di origine araba e persiana”.
Elif Shafak: “Potrei
definirmi una pendolare della lingua: quando ho iniziato a scrivere
in inglese, in Turchia sono stata criticata. Alcuni, soprattutto i
nazionalisti, hanno pensato che stessi abbandonando la mia lingua
madre, ma è proprio questo quello che contesto: sono convinti che si
debba scegliere l'una o l'altra. Capisce? È come se, scrivendo in
inglese, dovessi abbandonare tutto il resto. Io invece dico: perché
non usare entrambe? In un certo senso non abbiamo fatto altro che
nazionalizzare la nostra lingua. Se prende un dizionario ottomano,
vedrà che è grosso così. Un vocabolario di turco moderno è quasi
la metà. Ciò significa che centinaia di parole sono sparite.
Immaginiamo che io sia una scrittrice e che voglia scrivere qualcosa
sui colori. Io adoro i colori. Io so come si dice giallo in turco,
rosso in turco, d'accordo? Ma un tempo c'erano diverse sfumature e
non saprei come definirle, perché molte di esse sono definite come
originarie della lingue persiana e dunque questi vocaboli sono
spariti. In aggiunta alle parole moderne, cerco di recuperare quelle
vecchie. Rifiuto quella polarizzazione, perché c'è una
polarizzazione linguistica. Un tempo era tutto più chiaro: se sei
conservatore usi parole vecchie, se non lo sei usi parole nuove. Cosa
ci impedisce di usarle tutte quante?”
“Per noi turchi,
l'identità costituisce un problema colossale e continuiamo a
discutere su chi siamo: facciamo parte dell'Oriente o dell'Occidente?
È bello avere elementi di entrambi i mondi, ma a mio avviso non
apprezziamo questa ricchezza”.
Orhan Pamuk: “Chi
siamo? Vogliamo sentirci europei o parte dell'Asia? Siamo musulmani?
Cos'è un turco? Ritengo sbagliato imporre a un individuo o a una
società un'identità omogenea basata su una sola cultura. Sono
contro ogni forma di fondamentalismo, ed è appunto quello che fanno
alcuni dei nostri uomini politici. Dicono cose del tipo: 'Dobbiamo
occidentalizzarci', 'Dobbiamo rifiutare la religione e abbracciare il
laicismo', oppure 'Dobbiamo essere solo tradizionalisti e musulmani',
o ancora 'Dobbiamo essere soltanto turchi e parlare il turco puro', o
'Noi siamo solo socialisti, dobbiamo mettere su un piedistallo la
classe operaia'. Io preferisco una cultura che si arricchisca da
fonti diverse e, come faccio nei miei libri, difendo l'idea che
queste diversità possano convivere in pace, e soprattutto senza
conflitti”.
“Come tutti i giovani
borghesi provenienti dalla classe medio-alta di Istanbul, la
borghesia laica occidentalizzata, profondamente influenzata
dall'ideologia kemalista, per molto tempo ho pensato che tutto quello
che avevamo attinto da Rumi e dal suo 'Masnavi', dal sufismo e dalla
mistica islamica e dalla religione musulmana in generale, fosse
reazionario e privo di interesse. Il nostro era un rifiuto totale.
Tuttavia, a metà degli anni '80, sotto l'influenza del
post-modernismo americano, e di scrittori come Borges o Calvino, mi
sono reso conto che potevo riscoprire tutte queste opere della
tradizione letteraria ottomana e islamica partendo da un punto di
vista letterario e laico. In questo modo mi sono reso conto che
potevo crearmi una base dove potermi sentire a casa mia, a condizione
di fare mio questo grande patrimonio culturale con intelligenza e
discernimento. Pur di occidentalizzarci abbiamo voluto dimenticare la
nostra storia. A mio avviso, invece, è proprio esplorando il più
possibile di questa storia, appropriandosene, che dimostriamo uno
spirito occidentale”.
Sema Kaygusuz: “Qual'è
la mia eredità culturale? Quella che posso considerare come un punto
fermo? Non ne ho piena consapevolezza. Mio padre era un militare, un
ufficiale dell'esercito e per questo motivo ho vissuto in diversi
luoghi della Turchia. Non sono cresciuta con una sola lingua: la
famiglia di mio padre è di origine alevita, mentre quella di mia
madre ha radici ebraiche. Col tempo la mia famiglia è diventata
alevita, ma le nostre origini sono miste”.
L'opera di Sema Kaygusuz
risente di queste origini meticce. Nei suoi racconti e romanzi evoca
la cultura orale, i miti greci e le leggende dell'Anatolia, i
racconti mistici dei dervisci e le reminiscenze dello sciamanesimo
ancestrale, che vede il sacro in ogni elemento.
Sema Kaygusuz: “Tutte
le storie che ho ascoltato durante la mia infanzia, le discussioni
che le donne facevano tra di loro, le ninne nanne che cantavano ai
loro figli, tutto questo ha forgiato la mia anima e la mia lingua. La
mia non è una scelta cosciente. Avevo anche una nonna paterna che
vedevo per qualche giorno all'anno. Quando ho cominciato a passare
del tempo con questa nonna ho capito fino a che punto la letteratura,
la poesia e la metafora facessero parte della quotidianità, della
vita terrena. Mi ricordo che la mia nonna paterna baciava la luce
proveniente dal sole. I raggi del sole illuminavano un angolo del
muro e lei baciava quel particolare punto della parete e baciando
quel particolare punto del muro, era come se baciasse la luce del
sole. Lei era una sopravvissuta al grande massacro di Dersim del
1937-38. Noi l'abbiamo saputo solo dopo, molto più tardi. Per quanto
mi riguarda, l'ho saputo tardissimo e, che io sappia, non ha mai
parlato di quell'esperienza. È un capitolo della nostra storia che è
passato sotto silenzio per 70 anni. La Repubblica della Turchia era
stata appena fondata e le forze armate turche hanno ucciso i loro
stessi compatrioti. Sono state massacrate 15 000 persone in quasi una
settimana. Fu una strage”.
Nel 1937 i curdi aleviti
della provincia di Dersim, nelle montagne del centro della Turchia,
si ribellano contro il governo di Ankara per la sua politica di
assimilazione delle minoranze. La repressione è spietata. Gli
agitatori vengono giustiziati, i villaggi bombardati o incendiati, i
civili massacrati o deportati.
Sema Kaygusuz: “Uno dei
miei romanzi, qui è stato accolto da un diffuso senso di disagio che
non mi aspettavo. Un disagio di natura politica, sobillato dal senso
di colpa e da una negazione. Ma il libro è stato accolto anche da
ringraziamenti e da un'immensa gratitudine. È qualcosa di così
scioccante e umiliante per la società turca. Quando si beve il rakè
in Turchia, c'è la consuetudine di alzare il bicchiere e di brindare
dicendo: 'All'onore!'. Per noi turchi l'onore è fondamentale e
quello che è successo è profondamente umiliante. L'esercito del mio
Paese non può aver massacrato il mio stesso popolo, non può aver
fatto una cosa simile. Ora almeno se ne parla, è stato rimosso un
tabù. Anche per il genocidio degli armeni la gente ha reagito allo
stesso modo. Dicevano no, è impossibile, non possiamo aver fatto una
cosa simile! È una reazione psicologica, una reazione che ha a che
fare col senso di colpa”.
Lo sterminio degli armeni
dell'Impero Ottomano rappresenta il grande tabù della memoria
collettiva turca. A causa delle deportazioni e dei massacri di Stato
effettuati tra il 1915 e il 1916, ne sono morti quasi un milione. La
storia ufficiale turca ha sempre rifiutato di ammettere l'esistenza
di un genocidio. Col passare del tempo, la questione armena mai
risolta, è diventata un ascesso della memoria collettiva, una sfida
nazionale e identitaria. Nel 2005 e nel 2006, per aver affrontato
apertamente la questione, Orhan Pamuk ed Elif Shafak sono stati
accusati entrambi di oltraggio all'identità turca e giudicati di
fronte al tribunale. Un'esperienza dolorosa. Per un certo tempo Pamuk
è stato anche costretto a lasciare la Turchia e a vivere sotto la
protezione della polizia.
Elif Shafak: “'La
Bastarda di Istanbul' parla di due famiglie: una armena e una turca,
attraverso alcune vicende individuali. Volevo raccontare questa
storia dal punto di vista di alcune donne, donne di diverse
generazioni, nonne, madri, nipoti, soprattutto per mostrare quanto
avevamo in comune. In quanto esseri umani dovremmo essere capaci di
parlarne e anche di capire la complessità dell'argomento. Al momento
risulta difficile discuterne, ma naturalmente in Turchia molte cose
sono cambiate, se ne dibatte in maniera relativamente più aperta.
Allora era molto più difficile affrontare certe tematiche”.
“Sopratutto negli
ultimi 5 anni, la gente ha cominciato a parlare di cosa è accaduto
negli anni '20 e '30 non soltanto agli armeni, ma anche a molte altre
minoranze, perché col progetto di costruzione degli Stati-Nazione,
molte altre identità culturali sono state escluse, messe ai margini.
La gente ha cominciato a scusarsi, ha cominciato a parlare del suo
dolore, della sua sofferenza, il ché è salutare, perché aiuta a
guarire molte ferite”.
Sema Kaygusuz: “Abbiamo
intrapreso un lavoro sulla memoria. Mi riferisco a tutto il popolo
turco: adesso la società turca vuole ricordare. Non vogliamo più
soffocare la verità, negarla, farla passare sotto silenzio, fare
finta che non sia successo niente, perché così facendo non possiamo
crescere come nazione. In questi ultimi 10 anni la Turchia è
diventata un Paese che ricorda, un Paese che parla di tutto
apertamente”.
Orhan Pamuk: “A volte
mi ripeto che la borghesia turca è l'unico argomento di cui sono un
autentico esperto. La borghesia turca, la borghesia dei Paesi
musulmani e dei Paesi del Terzo Mondo, sono realtà che conosco bene.
Conosco il loro complesso di superiorità, questo desiderio di
occidentalizzazione, di imitazione dell'Occidente. Quel modo di
guardare i loro compatrioti dall'alto in basso, di ritenersi
superiori. Perché? Ma perché sono occidentalizzato, sono moderno,
civilizzato. Provano disprezzo nei confronti del loro stesso popolo.
Anche questo lo conosco bene, ma quando incrociano lo sguardo di un
occidentale e comprendono di non essere esattamente uguali a loro, a
quel punto rivendicano la loro identità turca e diventano
nazionalisti. È una borghesia molto pavida e conservatrice in
diversi temi: sulla questione curda, sulla politica in genere. La
borghesia ha sempre avuto molta paura delle forze armate. Conosco
bene quei sentimenti, quella china molto scivolosa”.
Dopo la morte di Mustafa
Kemal nel 1938, i governi che si succedono non riescono a mantenere
l'unità e la stabilità della Turchia. Il Paese sprofonda nella
violenza e nel caos, sullo sfondo della Guerra Fredda. L'estrema
destra nazionalista e la sinistra radicale si scontrano per le vie di
Istanbul, mentre crisi economiche croniche alimentano l'inflazione e
una massiccia disoccupazione. L'esercito, ufficialmente garante della
Repubblica e dell'eredità Kemalista, interviene con regolarità
cercando di ristabilire l'ordine con tre colpi di Stato: nel 1960,
nel 1971 e nel 1980. Nel 1980 la repressione è di una violenza
inaudita. Centinaia di militanti di sinistra vengono giustiziati o
eliminati. Vengono arrestate più di 600 000 persone. Il Paese viene
costretto a stringere la cinghia.
Orhan Pamuk: “Negli
anni Settanta, come tutta la mia generazione, come tutti i giovani
intellettuali borghesi provenienti dalle classi medio-alte, mi
consideravo di sinistra, persino marxista. Ma quei giovani erano
tutti coraggiosi, si sono tutti impegnati in politica e sono stati
tutti arrestati dalla polizia, messi in prigione, sottoposti a
torture. Quanto a me, non sono stato altrettanto coraggioso. Me ne
sono rimasto a casa, ho letto Thomas Mann, Proust, Virginia Woolf. Ho
scritto i miei romanzi. Mi sono sempre sentito in colpa per non aver
avuto il loro stesso coraggio, ma ero più individualista. Essere un
intellettuale significa evidentemente porre delle domande, sollevare
dei dubbi e dunque questo ruolo, a mio avviso, ti impone di non
appartenere esclusivamente a una particolare comunità. Se vivi in
una determinata società, devi essere libero di criticarla; se riesci
a mantenere un certo distacco, poi, è ancora meglio. È sempre stato
questo il mio stile di vita: ho cercato di tenermi a distanza,
conservando comunque un legame molto forte con quello che mi
circonda”.
Nel corso degli anni '90
le fratture della società turca si sono allargate. C'è la frattura
etnica nell'est del Paese, con la guerra a bassa intensità, come la
definiscono i militari, contro i guerriglieri turchi del PKK.
Complessivamente farà registrare quasi 35 000 morti. Una frattura
identitaria con lo sviluppo dell'Islam politico. L'esercito, garante
della laicità repubblicana, vi si oppone: proibisce i partiti
islamici, ma non contiene la loro avanzata. In questo caso, l'uso del
velo islamico diventa oggetto di una contesa politica.
Orhan Pamuk: “Quando si
scrive, inevitabilmente si toccano argomenti scottanti, molto
controversi, per cui non fanno altro che chiederti: e tu da che parte
stai? Io sono sempre dalla parte della gente che soffre. Al centro
del mio romanzo 'Neve', c'è il dramma di queste ragazze che portano
il velo. All'epoca in cui ho scritto quel libro, nel 1990, se una
giovane studentessa aveva compiuto i 18 anni e portava il velo, non
poteva entrare all'università. Ovviamente, qualunque persona
maggiorenne deve essere libera di fare le proprie scelte. La mia
posizione di romanziere su questo argomento è la seguente: le donne,
molte donne hanno sofferto a causa di questo problema ed è di questa
sofferenza che ho voluto parlare. Volevo scrivere delle sofferenze di
chi è oppresso dallo Stato, di chi è imprigionato a causa della
propria fede religiosa; ma volevo anche parlare di quelle persone di
sinistra che questo stesso Stato autoritario ha perseguitato e
annientato. In quel romanzo volevo parlare di tutto questo”.
“Al centro del mestiere
di scrittore c'è la capacità di comprendere le sofferenze di chi è
diverso da lui. Non soltanto la sofferenza delle giovani col velo,
che è facile da capire. Bisogna comprendere il radicalismo profondo,
il pensiero politico di un'islamista, di un fondamentalista. Non lo
condivido assolutamente, ma bisogna comprendere le ragioni per cui è
così in collera, perché è così furioso, che cosa lo spinge
persino a uccidere per difendere certi valori della sua cultura. E'
facile criticare e rifiutare in blocco l'Islam politico, ma a mio
avviso è più importante fare uno sforzo per capire e spiegare
perché la gente condivide quel modo di pensare. In fin dei conti,
l'arte del romanzo si fonda su una caratteristica fondamentale
dell'essere umano: quella che voi occidentali definite compassione”.
Nel 2002 la storia della
Turchia fa segnare una svolta: il Partito per la giustizia e lo
sviluppo (AKP) si impone nelle elezioni legislative e forma, per la
prima volta, un governo conservatore di ispirazione islamica. Alla
sua guida Erdogan. I primi anni del suo mandato sono caratterizzati
da riforme. L'esercito perde la sua influenza, l'economia
progredisce. La Turchia si afferma come potenza regionale. L'AKP
vince anche nel 2007 e nel 2011.
Orhan Pamuk: “Nel Paese
permane un forte antagonismo: da un lato abbiamo la cultura
militarista e golpista delle forze armate e sull'altro fronte c'è
una cultura islamica conservatrice altrettanto autoritaria, che al
momento è maggioritaria nel Paese. Chiamateli come vi pare:
islamisti, conservatori, il nome che gli attribuiamo ha poca
importanza, quello che è fondamentale è che adesso non sono più
loro le vittime del sistema, non possono più affidarsi al
vittimismo, non possono più farsi passare per vittime per raccattare
voti. Sono saldamente al governo. Ora sono loro al potere e hanno
fatto propria la cultura autoritaria dei regimi militari e usano gli
stessi metodi che venivano usati contro di loro. Gli eventi di Taksim
hanno dimostrato che la parte moderna e laica della società turca
era esasperata, che ne ha avuto abbastanza e ha deciso di scendere in
piazza per mostrare al governo la propria forza. Ora vediamo che
succede”.
Il 27 maggio 2013 si
improvvisa una manifestazione per impedire la distruzione degli
alberi del parco di Gezi, accanto a Piazza Taksim, Istanbul. Viene
repressa con la violenza. In pochi giorni la città divampa e Piazza
Taksim diventa il centro della contestazione, il punto di raccolta di
una gioventù arrabbiata. Contro la speculazione edilizia, contro il
conservatorismo politico e contro il crescente autoritarismo del
governo.
Sema Kaygusuz: “Lo
trovo molto simbolico. Tutto è nato perché era stato abbattuto un
albero. Mi sono detta: 'Dio mio, i nostri antenati panteisti e
sciamani si sono risvegliati!' Mi sono sempre sentita apolide. Mi
sono sempre sentita sola e in quanto donna, per via delle mie idee,
in quanto scrittrice, in quanto simpatizzante del movimento
ambientalista, in quanto femminista in un mondo fondamentalista. Ogni
volta che mi sono impegnata in qualcosa ho subito cocenti delusioni e
quando è scoppiata la rivolta di Gezi Park sono rimasta stupefatta,
forse perché ero diventata troppo pessimista. A Gezi Park, tutta
intorno a me, c'era tantissima gente. Di colpo abbiamo tutti messo
radici a Gezi Park e questa affascinante solidarietà che si è
creata in quel luogo, quelle assemblee organizzate anche in altri
parchi della città, tutto questo ci ha trasmesso l'impressione che
si stesse facendo giustizia. Una micro-giustizia. Abbiamo visto
spuntare, seppure in piccola scala, il germe della democrazia. E nel
momento in cui i rapporti di forza sono cambiati, il potere è stato
colto di sorpresa. Il potere ha bisogno della sofferenza per esistere
in quanto tale, ma qui ci sono delle rivendicazioni positive. La
gente non si presenta più esprimendo le proprie sofferenze, ma i
propri desideri, le proprie aspirazioni. Chiede che non si calpesti
più la propria sfera di libertà, i propri diritti. Chiede al
governo di smetterla di imporre dei divieti, di non raccontare
menzogne e di far funzionare la giustizia. Provo come un sollievo: ho
la sensazione che questa comunità sia cresciuta, che si facciano dei
concreti passi in avanti. Finalmente sento di avere un Paese”.
Orhan Pamuk: “Durante
gli avvenimenti di Gezi Park e Piazza Taksim, la reazione del governo
sproporzionata e discriminatoria, ha ulteriormente esacerbato la già
forte polarizzazione della società turca. Tuttavia, credo che non
possa esserci un futuro per la Turchia senza una maggiore
comprensione reciproca: comprensione dei progressisti nei confronti
dei conservatori e viceversa, dei libertari nei confronti del
tradizionalisti e viceversa. Forse la polarizzazione della società
turca torna utile al partito politico che è attualmente al potere,
ma non giova alla democrazia, alla tolleranza delle opinioni diverse
e ostacola un arricchimento culturale. Come gran parte della gente,
anch'io sono stato a Taksim, al parco di Gezi e ho sentito questa
nuova lingua, questa nuova tolleranza, questo nuovo modo di stare
insieme. Io credo a questo nuovo movimento creato da questi ragazzi
di diversa estrazione sociale, anche se utopico e fin troppo
ottimista”.
Elif Shafak: “A mio
avviso, in Turchia dobbiamo capire che non devo necessariamente
condividere l'opinione di qualcuno per rispettarne la libertà di
espressione. Dovrei sostenere la libertà di espressione di quella
persona. Che ne condivida o meno le idee è un altro discorso, non è
importante, ma è fondamentale che alla gente sia garantita la
libertà di esprimere liberamente il proprio pensiero ed è qualcosa
che in Turchia dimentichiamo facilmente per via di questa
polarizzazione. Devi essere al tempo stesso dentro e fuori, avere
dimestichezza con una certa realtà rimanendo al contempo estraneo
quel tanto che basta per osservarla con distacco, per porre certe
domande, conservare il tuo spirito critico. E per non perdere quello
spirito critico, dobbiamo mantenerci sempre sul confine. I jinn
sono figure che ricorrono spesso nella cultura orale. Secondo la
tradizione, i jinn sono creature nate dal fuoco e fatte di
fumo. Sono cresciuta in parte con la mia nonna materna e ho
assimilato tutti questi insegnamenti in prima persona. Mi insegnava
sempre a non calpestare la soglia quando si entrava in una stanza,
che bisognava sempre entrare col piede destro e dovevamo quasi
saltare oltre la soglia. Perché? Perché questa soglia è la zona
del jinn, di queste creature sovrannaturali, perché è un
luogo di transizione, di passaggio. È uno spazio sfuggente dove può
accadere di tutto. Quando ci penso, credo che tutti gli artisti,
tutti gli scrittori abbiano bisogno di uno spazio sfuggente. Abbiamo
bisogno di quella soglia, di trovarci nella realtà dei jinn
senza appartenere davvero a nessun luogo”.
ALCUNI LIBRI DEGLI AUTORI CITATI:
“Neve”, Orhan Pamuk,
Einaudi
“Istanbul”, Orhan
Pamuk, Einaudi
“Il museo
dell'innocenza”, Orhan Pamuk, Einaudi
“La bastarda di
Istanbul”, Elif Shafak, Bur
“Le quaranta porte”,
Elif Shafak, Bur
“Latte nero – storia
di una madre che non si sente abbastanza”, Elif Shafak, Bur
Come sempre il tuo blog è spunto di riflessione. Dovresti pubblicizzarlo di più. La Turchia è un paese difficile, vive tra due mondi e più culture, e spesso, come è accaduto da altre parti, non è facile convivere. Ogni paese ha perso la propria identità, perfino l'Italia (basti pensare ai tanti paesi abbandonati o alle città come Venezia, decadenti Luna Park), ovviamente alcuni ne hanno risentito di più per posizione geografica e cultura. In questi ultimi anni la Turchia sta cambiando ulteriormente, e non in meglio. Naturalmente se ne parla poco, come è stato fatto a suo tempo per l'ex Jugoslavia, Ceausescu in Romania o per Anna Stepanovna Politkovskaja... discorso lungo.
RispondiEliminaUn abbraccio