Recensione: “La vera storia di Capitan Uncino”


Piemme, 2011, 312 pp.

Ecco cosa hanno da (re)insegnarci i bambini: la lievità.

Grazie a mia nipote Giuliana mi sono immersa nella lettura di questo romanzo che lei ha trovato bellissimo e molto avventuroso. All'inizio non nascondo che ero restia a buttarmi dentro a queste pagine: sul mio comodino c'è una pila alta mezzo metro di romanzi e saggi da leggere, titoli che ho messo lì proprio perché hanno la priorità sulle altre centinaia in giro per la casa... eppure sono tanto legata a mia nipote quanto al concetto che, se ti arriva una certa informazione o, come in questo caso, un libro da leggere quando meno te l'aspetti, un motivo c'è.

E in effetti il motivo per cui mi è arrivato questo romanzo adesso è anzitutto l'avermi riportata alla fanciullezza, quando si poteva vedere il mondo da angolazioni decisamente più semplici e per questo spesso migliori di quelle che sono concesse a noi adulti, così pressati e tirati da impegni e scadenze. Baccalario è un grande autore, e in questo libro ha avuto l'ardire di gettarsi in un prequel che poteva trascinarlo nel dimenticatoio, se fosse venuto male: raccontare la vita di Capitan Uncino quando era ancora, “solo” James Fry, il figlio di un'anonima contadina del Surrey e di... questo non lo posso dire perché sarebbe uno spoiler tremendo.

Lo scrittore ha attinto a molti testi della marina britannica e della storia dei pirati per curare la stesura del romanzo: i diari di William Lambton (direttore dei rilievi geografici dell'Indostan), del Conte Edward de Warren (ufficiale di ventura al servizio di Sua Maestà Britannica e del naturalista Edmond Cotteau (corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Parigi), “L'India senza gli inglesi” di Pierre Loti, Edt, “Scesa e declino della potenza navale britannica” di Paul Kennedy, Garzanti, “Bucanieri nei Caraibi” di Alexandre Olivier Exquemelin, Effemme, ecc.

Il tutto per narrare le vicende di un ragazzino cresciuto in una colonia britannica indiana insieme alla madre sarta, ma che con quel luogo nulla aveva a che fare. Un bambino con un grande carisma fin dalla più tenera età, indomito, incapace di calzare scarpe, il cui unico vero richiamo era il mare. Se lo scrittore Jules Verne scappò di casa per tentare di imbarcarsi su una nave a 11 anni, il nostro protagonista lo fece a 13 e da lì non si fermò più. Le sue straordinarie capacità mnemoniche, la conoscenza della scrittura e della matematica, l'acutezza e una naturale predisposizione a governare una nave in qualunque ruolo, lo elevarono in breve tempo a cariche sempre più importanti, permettendogli di conoscere marinai e capitani di grande valore. I paesaggi e gli arrembaggi sono descritti meravigliosamente anche per una lettrice che, come me, non ha molta familiarità e passione per la marina. A spiccare su tutto e tutti, comunque, rimane il carattere di James Fry, un protagonista descritto così bene e così vicino a tanti sentimenti umani in ogni più piccola sfumatura che, a tratti, rende difficile il riconoscimento col più tardivo Capitan Uncino, ma non per questo impossibile.


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