Recensione: “La bambina di neve” di Eowyn Ivey
Einaudi, 2011, 409 pp.
Regalo di Natale giunto
grazie... alla mia lettera a Babbo Natale!
E' un romanzo-fiaba che
ha superato ogni mia più rosea aspettativa.
Narra la storia di una
coppia di americani della Pennsylvania che, nel 1920, decidono di
trasferirsi nelle Terre Selvagge, ovvero in Alaska. Pochi comprendono
le loro ragioni, ma il lettore fa presto a sentirsi unito a entrambi
da un moto di profonda empatia. I protagonisti, infatti, dopo aver
perso un figlio alla nascita, non hanno più potuto averne e, stanchi
degli sguardi di pena o di rimprovero di amici e parenti, depressi e
con tanta voglia di ricominciare, decidono di prendere la via dei
pionieri.
L'impatto con quella
Natura dura e fredda è violento. Sopravvivere davvero difficile,
soprattutto per chi non è più giovane e deve imparare tutto di
quel nord fatto di pianure e ghiaccio. Tuttavia la coppia ce la fa.
Durante una notte
solitaria, dopo una copiosa nevicata, escono in giardino per creare
un pupazzo di neve. Sembra uno di quei momenti di magia che capitano
tra una coppia quando l'amore, la tenerezza e il desiderio si
fondono. Il pupazzo è finito, ma prima di rientrare in casa, la sua
“mamma” gli mette addosso anche dei guantini e una sciarpa di
lana.
Il mattino seguente, al
posto del pupazzo, distrutto, e degli accessori donatigli, la coppia
trova delle strane orme nella neve. Quelle di una volpe, certo, ma
anche quelle di... una bambina.
Alla signora torna
immediatamente in mente una fiaba che il padre le raccontava quando
era piccola: quella di Sneguročka.
Una favola russa trovata in un libro scritto con caratteri cirillici,
ma che il distinto professore di inglese, padre della protagonista,
conosceva a memoria. Lei, da sempre innamorata delle fiabe, dei
racconti di fate ed elfi, non riesce a credere ai propri occhi,
perché la piccola Sneguročka
è proprio una bambina fantastica che prende vita da un pupazzo di
neve realizzato da una coppia di anziani che non ha potuto avere
figli. Poi, come ogni favola russa, l'epilogo è tragico, ma per il
momento, la “mamma” non ci vuole pensare.
Deve
trovare la bambina e quando l'avrà davanti a sé, bardata con la
sciarpa di lana e con i guanti che lei stessa aveva messo sul pupazzo
di neve, sarà amore a prima vista. Ecco la figlia tanto desiderata,
nata durante una notte di magia, amore e desiderio.
Il
marito, però, è più realista e seguirà le orme della fanciulla
fantastica per scoprirne il segreto.
Qui
mi fermo. Il resto è tutto da scoprire.
Ciò
che io ho adorato di questa storia è non soltanto la magia di cui è
composto, ma anche la splendida descrizione dell'Alaska. Di norma i
dettagli degli ambienti e gli sguardi dello scrittore mi annoiano.
Qui non è accaduto.
La
bambina di neve, il cui nome è Pruina, nutre verso la Natura un
rapporto viscerale, un Amore ancestrale. Chi, come me, è cresciuto
in mezzo alla natura selvaggia non potrà che commuoversi dinanzi al
tormento della bambina prima e della giovane donna poi, divisa tra la
necessità di vivere tra gli alberi e la neve e rimanere anche a
fianco dei suoi nuovi genitori e del suo primo amore. La sua
disperazione, la sua ferita è palpabile e la scrittrice l'ha
descritta davvero come se l'avesse vissuta lei stessa dentro il
petto.
Accade di rado che una
fiaba originale, una volta riscritta venga superata in bellezza,
pathos e autenticità.
Questo è uno di quei
rarissimi casi, ecco perché il mio consiglio è di leggerlo.
Tassativamente in inverno.
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